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L’ottimismo, la nostalgia, la dignità: “LA MIA INDIA” di LIONELLO FRONZONI di Sergio Maria Pisana
Quando Augusto Casagni mi ha chiesto di dire alcune parole di presentazione del libro di Lionello Fronzoni, ho accettato volentieri, per la stima che nutro verso Lionello. Nella mia lettera del 9 febbraio 2000, nell’accettare le dimissioni dal Club, da lui presentate con rammarico per motivi di salute, gli scrivevo: Il Tuo rammarico è anche il nostro, non solo perché sei uno dei nostri Soci fondatori, ma perché sei senz’ombra di dubbio uno dei nostri Soci più degni, la cui appartenenza onora il nostro Club. E aggiungevo: Ho detto “onora”, al presente, perché noi continuiamo a considerarTi uno dei nostri e saremo lietissimi di ospitarTi, quando vorrai, nelle nostre conviviali. Ora, dopo aver letto il libro, sono ancora più lieto di adempiere a questo incarico, per l’intrinseca validità del libro stesso. Vi dirò dopo in che consista questa validità. Ora lasciate che ve lo presenti. Si tratta di un diario, e ha la freschezza di ciò che è scritto di prima mano. In ogni momento, chi scrive è consapevole solo del passato, ma ignora quello che gli riserva il futuro: ignora cosa scriverà l’indomani. Il libro si apre con una colazione, a bordo della caccatorpediniere “Pantera”, nel porto di Massaua. È il 13 marzo 1941. Il ten. Fronzoni, poco più che trentenne, è stato invitato dal Comandante della nave; i due ufficiali hanno parlato a lungo della guerra; il morale è alto: nell’ultima uscita, il mese prima, il Pantera ha affondato due piroscafi nemici. Si pensa di poter resistere ancora a lungo, laggiù, infliggendo al nemico notevoli perdite. Fronzoni è da tre anni funzionario della Banca d’Italia; dopo una primo periodo di servizio a Genova, nel marzo del ’39 è stato assegnato alla Sede di Addis Abeba, e il 5 luglio successivo ha sposato per procura la sua Bruna, che lo ha poi raggiunto in Etiopia; ma la vita matrimoniale è stata breve, perché, quando l’Italia è entrata in guerra, il giovane Fronzoni ha sentito il dovere di arruolarsi, e - quale tenente di artiglieria, è stato mandato sulle alture di Cheren, per difendere la sottostante baia di Massaua. Il 16 marzo, infatti, gl’Inglesi attaccano in forza Cheren, ma vengono respinti. L’ottimismo fa presto, però, ad affievolirsi: giungono al fronte notizie dei bombardamenti di Asmara (17 marzo), della perdita di Berbera (18 marzo), dell’abbandono di Agordat (30 marzo), della resa di Asmara (1° aprile). Poi comincia il flusso ininterrotto di macchine e camions che scendono da Asmara, “triste esodo che colma l’animo di malinconia”. Il caposaldo di Quota Segnale, dove Fronzoni combatte, viene investito nei giorni successivi dai tiri d’artiglieria nemici, ai quali risponde. Lionello annota: “È il mio battesimo del fuoco: sono soddisfatto di me stesso; sono calmo e sereno”. Il nemico è vicinissimo; i duelli d’artiglieria e gli spari sono continui. L’8 aprile, martedì santo, all’alba, nel corso dei combattimenti, Fronzoni rimane isolato. “Sento le pallottole fischiare intorno a me. È ancora quasi buio, non si riesce a distinguere bene. Mentre corro, sento grida sulla mia destra e da dietro. Mi fermo. Vedo una quindicina di uomini che si precipitano su di me. Sono gli Inglesi. Così sono fatto prigioniero”. Al dolore per la prigionia, si aggiunge quello per la sorte della giovane moglie, che ha lasciato ad Addis Abeba: gl’Inglesi gli hanno confermato che Addis Abeba è caduta. La prigionia durerà esattamente cinque anni. Fronzoni sbarcherà a Napoli, di ritorno dall’India, il 21 aprile 1946, il giorno di Pasqua. E avremmo desiderato che il diario fosse scritto per tutti questi anni; invece, esso s’interrompe il 17 agosto 1941, ancor prima d’arrivare al campo di Yol, alle pendici dell’Himalaya, dove si è svolta la parte preponderante della prigionia dell’Autore. Sicché il titolo dell’opera è forse inappropriato, sebbene suggestivo. Del centinaio di pagine che costituiscono il diario, un po’ più di una quarantina riguardano l’India; le altre sono state scritte: in parte, sulla nave-ospedale Ramb IV, che porta i prigionieri lungo il Mar Rosso in Sudan (9- 22 aprile); in parte, nella tendopoli di Haiya, nell’allora Sudan anglo-egiziano (dove i prigionieri restano fino al 22 maggio); in parte, sulla nave “El Madina”, con la quale si compie la traversata fino alla baia di Bombay, dove i prigionieri sbarcano il 31 maggio. La parte propriamente indiana del diario abbraccia due mesi e mezzo, trascorsi nella tendopoli di Bhopal-Bairagar, che è situata al centro-nord dell’immenso triangolo della penisola indiana. E veniamo ai pregi del libro.
— 19 aprile, sulla nave che lo porta in Sudan: “Il sole sorge splendente su un mare perfettamente calmo. La brezza non ha ancora increspato la sua superficie. Sembra stagno liquido. Si profilano nette le cime delle montagne; le guardo pensando che oltre quelle vette, lontano, c’è la mia famiglia. Ammiro con invidia questi gabbiani che volteggiano liberi nell’aria e penso che se potessi trasformarmi in gabbiano partirei immediatamente per Aba. Mi diverto a calcolare la loro velocità per vedere quanto tempo impiegherei. Fisso le probabili tappe, la rotta. Queste fantasticherie occupano la mia mente per vario tempo”. — 6 luglio, al campo di Bhopal, ripensando ai luoghi della sua adolescenza: “Ritroverò ancora la Madonnina di maiolica, nella sua rustica nicchia di mattoni in cima alla strada scoscesa di Monte San Bartolo, fiancheggiata da alte siepi, che finisce in cielo? È la più bella strada del mondo: sali, sali faticosamente e dopo l’ultima curva hai l’impressione che la tua strada continui verso il cielo, si perda nell’infinito”. — 7-12 luglio: “A pochi passi da noi, giorno e notte, passano in continuazione treni. Specie nella notte, quando senti quel fischio lontano e quel fragore che si allontana veloce, ti sembra impossibile di essere prigioniero. È il simbolo della libertà che ci chiama, quasi ci sfiora per poi sparire inghiottito dalla notte. Solo la risata delle iene, lugubre e stridula, ti tiene compagnia finché il sonno non vince”. Ci sono descrizioni estremamente efficaci: — (6-9 giugno): “Cominciano le piogge. Il nostro campo si trasforma in un lago. Camminando, il fango aderisce alle suole delle scarpe, rendendo quasi impossibile lo spostamento da un punto all’altro. Piove, piove a dirotto, lentamente l’acqua filtra all’interno delle tende… e si dorme nell’acqua! Uno scoramento infinito penetra nell’animo. Pensieri torturanti turbano la mia mente, mentre la pioggia cade violenta, e la tenda, scossa dal vento, sembra dovere cedere da un momento all’altro. E se questa prigionia durasse degli anni?”. Ma il pregio maggiore è l’immediatezza del racconto, non rivisitato né meditato attraverso il ricordo. Per cinque mesi, il lettore è trasportato in una dimensione del tutto sconosciuta a chi non ne ha avuta esperienza. Sapevate che i prigionieri rimangono organizzati autonomamente, mantenendo le loro gerarchie, che a loro volta rispondono ai comandanti nemici del campo? Sapevate che gli ufficiali percepiscono uno stipendio dal nemico? Quello che poi si tocca con mano è la fame, il caldo asfissiante, le formiche che ci mangiano e le mosche a miliardi, le punture di scorpioni e i morsi di serpenti, la dissenteria, il colera, gli amici che muoiono, la nudità o seminudità per la mancanza degli effetti personali sequestrati o rubati… C’è poi l’amara lezione che viene dallo scoprire le bassezze umane: — 28 maggio: “Ho imparato in questi mesi, più che durante tutta la mia vita, a conoscere gli uomini; le loro vigliaccherie, le loro bassezze, ed anche, raramente, il loro coraggio, il loro valore e la loro bontà. Dal punto di vista psicologico e sociale nulla vi è di più rivelatore della guerra e della prigionia”. — 24 aprile: “Seguitano le discussioni, le liti durante le varie distribuzioni: Tutti gli egoismi, tutti i vizi più ascosi vengono a galla: Tutti sono eccitati ed intolleranti. Vi sono molti ufficiali coi capelli bianchi che brontolano continuamente. Si svolgono spesso scene disgustose. Ufficiali superiori che cercano di avere due razioni di the; altri che cercano si sottrarre dalle tende vicine le vaschette o la latta per l’acqua”. — 8 maggio: “Nel nostro campo è scomparsa ogni disciplina, ogni gerarchia è quasi abolita, e la maleducazione regna sovrana. Bisognerebbe formare una squadra punitiva pronta ad intervenire ad ogni occorrenza e che, a suon di potenti cazzotti, riconducesse alla ragione quelli che fingono di averla smarrita. Se è vero che gli inglesi ci trattano come animali, che molti di noi sono ammalati e siamo tutti esasperati, questo non significa che dobbiamo dare sì penosi spettacoli di noi stessi”. Dove si vede come il giovane Franzoni mantenesse in quei frangenti la sua dignità e non avesse abdicato ai sani e severi principi morali che indubbiamente erano i suoi. Quando, ad esempio, da più parti si fa colpa al comandante italiano del campo, col. Favilla, di essere un debole e di non sapere far valere i diritti dei prigionieri, Lionello insorge: “Perché questi ufficiali che protestano, gridano e criticano l’operato degli altri non si offrono loro per ottenere dagli inglesi un trattamento conforme ai trattati internazionali?”. Egli, per parte sua, lavora indefessamente da interprete, e tiene i contatti fra i prigionieri e i loro custodi. Eppure, questa umanità abbrutita ha sussulti di dignità, a volte: — 20 aprile, sulla nave-ospedale; è la vigilia del Natale di Roma, e allora “la sera, improvviso, si leva un coro: è l’inno a Roma. In quel canto c’è tutta la nostra passione e la nostra nostalgia. È come una preghiera che sale verso il cielo terso e stellato”. — 22 maggio: gli ufficiali, fra i quali è il ten. Fronzoni, lasciano la tendopoli di Haiya per essere condotti in India. “Alle 10, 50 gli ufficiali si adunano presso il cancello delle rispettive gabbie che per un mese ci hanno accolti. I soldati si affollano dietro i reticolati dei loro campi per salutarci. Sono commossi. Alcuni piangono. Quando passa il gruppo dei loro ufficiali ridotto a un gregge, che sotto il sole infuocato arranca sulla sabbia per ptrasportare i propri bagagli, si alza spontaneo, formidabile, commovente un grido solo: Viva il Re. È l’addio”. — 16-17 giugno: nel campo di Bhopal, i prigionieri hanno deciso di cominciare uno sciopero della fame, per reclamare condizioni migliori di vita. “Il colonnello inglese viene a parlarci… afferma che ogni nostro tentativo di fuga sarebbe soggetto al fallimento per i serpenti, le bestie feroci e… gli indiani, che non possono dimenticare che noi in guerra abbiamo usato i gas. Urla paurose si alzano, le fila ondeggiano e il Colonnello e il traduttore si rendono conto dell’errore compiuto. Il nostro colonnello, interpretando i nostri sentimenti, dichiara di insistere nello sciopero della fame finché gli inglesi continueranno a trattarci come animali”. Gli inglesi. Già: quale giudizio ne dà Fronzoni? Espressamente, negativo, per l’incapacità a organizzare e dirigere il campo, per il cattivo trattamento dei prigionieri. Ma sostanzialmente, dai fatti più che dalle parole, il quadro non mi sembra poi tanto fosco. Rispettano l’autonomia dei capi italiani e intervengono su loro segnalazione; trattano con i prigionieri e spesso riconoscono giuste le loro proteste, per esempio aumentando e migliorando il cibo o consentendo l’organizzazione di uno spaccio; pagano gli stipendi agli ufficiali; non di rado conversano con alcuni di questi e li invitano a colazione o a cena. Il fatto è che - come ammette fin dalle prime pagine il diarista - non è stato facile nemmeno per loro organizzare campi idonei ad ospitare migliaia di persone, giacché nemmeno loro si attendevano di catturare tanti prigionieri. Nella prigionia, Fronzoni non dimentica di essere italiano, non rinuncia all’orgoglio nazionale. Lo si vede da come annota la propria soddisfazione e la propria speranza a ogni notizia di successo dell’Asse (dall’occupazione della Palestina alle vittorie tedesche in Russia), e dal dolore che prova quando apprende, ad esempio, della caduta dell’Amba Alagi e della cattura del nostro Vicerè. Lo si vede dal colloquio avuto con un ufficiale inglese, nel quale insiste sulla nostra vittoria finale tanto da convincere quasi l’ufficiale nemico. Sono i risultati di un’atmosfera che allora i nostri giovani assorbivano. E tuttavia, il senso più universale dell’umanità affiora, a tratti: — 24 aprile: nella tendopoli di Haiya: “In questo cielo terso e luminosissimo, con le sue fredde e tremolanti fiammelle, si perde il mio pensiero, e l’animo mio in tumulto sente la inutilità delle guerre e delle loro terribili conseguenze”. — 16 maggio: è stato invitato a pranzo dal capitano inglese. C’è anche un ingegnere civile delle ferrovie sudanesi. Al nostro Lionello l’orgoglio nazionale non impedisce di osservare che il capitano nemico “è una simpatica persona, colta, di ampie vedute. Ad un certo punto dice: Chi direbbe, in questo momento, che Mr. Fronzoni è nostro nemico?” Mr. Fronzoni annota, nel proprio diario: “Ripenso a quando ero studente a Londra. Strana davvero questa vita! Un mese fa stavamo uno di fronte all’altro, pronti ad ucciderci. Il capitano è stato ferito a Cheren. Ora siamo qui, insieme, a sorbirci un bicchiere di birra: lui in convalescenza, io prigioniero".
Come vedete, i motivi d’interesse di questo libro sono tanti, e io ne ho indicati solo alcuni. Per trovare tutta intera l’atmosfera del libro, occorrerebbe leggerne, tutta di seguito, almeno una pagina. Quale? Scegliere è difficilissimo. Volete un consiglio? Affidatevi al caso. Leggete ciò che Lionello Franzoni scriveva esattamente 60 anni fa
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