Luigino  Giovannelli

Un  rivisondolese  D.O.C.

Estate 1990. Non era stato facile sino ad allora resistere alla dolce insistenza con la quale le nipotine chiedevano a nonno Luigino di raccontar loro particolari di quando era bambino: nonno, quali erano i tuoi giocattoli, quali i regali che ricevevi a Natale, cosa facevi a scuola ?.

Le "interviste" ai nonni venivano incentivate alle elementari, e le domande dei piccoli erano semplici ed ingenue. Per le più piccole (Chiara ed Adriana) era sufficiente sentir raccontare dei boschi e dei loro abitanti, delle mucche nelle stalle, degli agnellini al pascolo e la loro fantasia galoppava in un mondo incantato, ove nonno Luigino, sornione, le trasportava pian pianino sull'onda del racconto, e sorrideva con loro quando le bambine mostravano meraviglia e divertimento nell'ascoltare di un vissuto tanto diverso da quello a loro usuale: "... I dolcetti, rari, soltanto alla festa di S.Emidio, i pennini che spargevano inchiostro in ogni dove, la TV dei ragazzi che non c'era !!! ".Per la più grandicella, Francesca, che conosceva queste storie, al limite tra la realtà e la favola, per averle ascoltate già tante volte, esse non erano più sufficienti; voleva sapere del perchè di quelle foto in divisa, del berretto con la penna nera, di quella foto dove nonno sembrava uno della banda Bassotti, con la giacca a strisce evidenti, e quel numero sul petto. A queste domande i chiari occhi del nonno si velavano appena percettibilmente, subito ravvivati nello sguardo eccitato iniziando a raccontare della scuola Alpina a Predazzo, delle gare di sci, dei salti dal trampolino Roma a Roccaraso ... ma dell'Africa accennava, e di rado, solo alla sete, al deserto, alle gazzelle ... la consegna del silenzio non permetteva deroghe. Ma in quelle giornate dl luglio del 1990, ancora gagliardo ottantenne, riempì diciotto cartelle dattiloscritte, tracciando le fasi salienti della sua vita, che consegnò alla nipote adolescente, Francesca, appena qualche anno  dopo.

Con pudore tracciò rapidamente gli anni della gioventù, già tante volte raccontati, sottolineando soltanto la caparbia determinazione al riscatto della condizione sociale sino ad allora sopportata.

La storia s'incentra prevalentemente sull'avventura in terra d'Africa, dove giovane fra tanti, fu abbagliato dal sogno che la propaganda dell'epoca propinava alle forze armate, e non solo, italiane. E Luigino, componente di un reparto scelto delle Fiamme Gialle, non restò insensibile ai canti delle sirene ammaliatrici. In queste pagine ne riportiamo integralmente il contenuto, desiderando infatti che queste righe restino impregnate dello spirito che portarono questo rivisondolese d.o.c. a lasciare per iscritto quanto, sino ad allora, non aveva mai raccontato.

Ed ecco la storia di un figlio del suo tempo, figlio degli  Altipiani Maggiori d'Abruzzo, che ha scritto, non solo metaforicamente parte della storia anche dell'Altipiano Etiopico, tanto lontano dalle nostre cime innevate.

- ONORE AL MERITO -

 CARA FRANCESCA,

da giorni tu mi chiedi il curriculum della mia vita.

Io non sono un letterato, le mie parole sono semplici, non occorre

il vocabolario per conoscere il significato.

            TI ACCONTENTO:

Incomincio da quando ero bambino. Ero abbastanza discolo, mia madre

mi portava sempre con se quando andava alla terra a portare il con=

cime per migliorare la crescita del grano, patate, piselli,fagioli ed altro. Io mi rendevo molto utile nei piccoli servizi, come andare a

prendere l'acqua alla fontanella.

IL 13 gennaio 1913,fece il terremoto, noi eravamo in 5,tutti piccoli, Giorgio, Emilia, Nicola; Rosaria era la più grandicella per aiutarci;

tutti aravamo attaccati alla gonna di nostra madre per la salvezza.

Andammo a S. Liberata, per essere sicuri di non andare a finire sotto

le macerie. Il terremoto finì. Tornammo a casa.

IL 24 maggio 1915,scoppiò la prima guerra mondiale,io avevo appena 5

anni. Al compimento del sesto anno di età andai a scuola; tutto il mio necessario era composto da una cartella fatta di stoffa con uno spal=

laccio senza fronzoli,un quaderno a righi e uno a quadretti,

una penna (non biron) che si intingeva al calamaio e una matita detto lapis nero per incominciare a fare le aste. Era periodo di guerra

tutto ciò che i bambini hanno oggi a quell'epoca era soltanto un sogno.

Avevo 8 anni, mio fratello Nicola faceva il pastorello,era con un pastore (pecoraio) sulla Maiella vicino alla cima di MONTE AMARO a circa 2500 metri sul livello del  mare; qui si  potette ammirare tutte le bellezze della terra abruzzese.

Si dice che lo studio è la via del sapere, il mio sapere di scuola elementare era talmente poco. Finita la scuola, la terza elementare, mio padre, pastore (non di anime) ma di pecore, mi prese con se perchè occorreva al fabbisogno di famiglia. Avevo nove anni, incominciai a girare tutti i boschi della zona di PALENA, di PIZZOFERRATO, di GAMBERALE, di S. PIETRO AVELLANA, di CAPRACOTTA, PESCOPENNATARO e parte di quello di ROCCARASO.

Il bosco era la mia città.

 


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i Racconti  

   

Mio padre era un uomo molto accorto, e non sopportava i soprusi dei padroni; ne aveva cambiati parecchi. Questi padroni di allora, oggi sono tutti falliti.

Il mio  stipendio si aggirava intorno alle 30 (trenta)lire mensili. Così ebbe inizio la mia vita per la via del TRATTURO, primavera e autunno. Mi spiego meglio: in autunno, nel mese di ottobre, si partiva per le PUGLIE, e a primavera, nel mese di maggio, per l'Abruzzo nelle varie località descritte avanti.

Questo avanti e indietro durò per otto anni fini all'età di 18 anni. Nel 1928, mi misi a lavorare conducendo un carretto per trasportare ghiaia, sabbia e pietre sulla strada nazionale. L'inverno mi recavo a spalettare la neve sulle strade. sulla ferrovia e al Piano delle Cinquemiglia fino a Roccapia. Il mio mezzo di locomozione era "il Cavallo di S.Framcesco".

Mio fratello maggiore, Nicola, che aveva fatto il soldato a Genova  e trovato l'impiego, mi ispirò di fare domanda di arruolamento nel Corpo delle Guardie di Finanza.  Fui fortunato, mi presero  e  mi

 

Foto a cavallo tra ottocento e novecento, che ci mostra un gregge alla Posta del Pratello.

In primo piano due giovani pastori, di cui il più piccolo, dedicato alla logistica, porta  per la "capezza"  un somarello con la "varda" sulla groppa.

mandarono alla Scuola Alpina di Predazzo, ove frequentai un corso di sei mesi, compreso  il Corso Sciatori a Passo Rolle.

Il mestiere che facevo da pecoraio mi era diventato odioso, tanto era il sacrificio che sopportavo, solo pensando che dovevo affrontare il viaggio a piedi due volte all'anno per le seguenti località: Manfredonia, Foggia, Torremaggiore ed altre piccole località vicine. Un po' di istruzione me la faceva mio padre, aveva una discreta cultura. Per letture mio padre aveva un libro "IL GUERRIN MESCHINO" che io leggevo sempre per passare il tempo con la lettura; non avevo altri libri da leggere.

Da Predazzo, dopo frequentato il corso fui inviato a Milano, da qui mi mandarono a SERNIO (Sondrio), poi nelle seguenti località: Madonna di Tirano, Gordona, S.Martino Val Masino

Sede della Scuola Alpina della Guardia di Finanza

PREDAZZO (Tn.)

 

ove sono le terme; l'acqua viene fuori dalla montagna a circa 50 gradi di calore. Confine italo-svizzero.

ANNO 1933: dalla Legione di Milano mi trasferirono a Genova nelle seguenti destinazioni: Ponte dei Mille, Sampierdarena, Cornigliano, Rocchetta Nervina sul confine italo-francese.

Poiché ero infatuato della vita avventurosa, feci domanda per andare in Africa Orientale (Abissinia), domanda che mi venne accolta, e nel mese di novembre 1938 partii per l'Africa, imbarcandomi a Brindisi sulla nave DUCHESSA D'AOSTA. I miei genitori rimasero molto dispiaciuti della mia decisione di andare in Africa, dove c'era anche il mio fratello Giorgio, che era partito nel mese di maggio dello stesso anno.

I  miei genitori vedevano tanti pericoli nei loro pensieri, ma io li rincuorai dicendo loro che pericoli da affrontare non c'erano per il lavoro che io dovevo fare. Ma il pericolo era all'ordine del giorno.

Sbarcai a MASSAUA e mi mandarono ad ASMARA per le decisioni di assegnazione definitiva al reparto. Da qui mi trasferirono ad ADIS ABEBA, che in abissino vuol dire NUOVO FIORE. Lungo il viaggio da Asmara ad Adis Abeba passai in quei luoghi dove nel 1896 si svolsero cruente battaglie tra le truppe italiane ed abissine dell'imperatore MENELIK (truppe italiane comandate dai generali BALDISSERA, ARIMONDI, LA BORMIDA, GALIANO e TOSELLI sull'AMBA ALAGI), zona strenuamente difesa dal DUCA D'AOSTA AMEDEO DI SAVOIA, VICE RE D'ETIOPIA nell'anno 1941, mese di maggio, ove cadde prigioniero degli Inglesi, e morì a Nairobi in Kenia il 2 marzo 1942.

Da Adis Abeba, dopo 3 mesi di sosta, con un premio di giorni sei di prigione perchè avevo tagliato i gambaletti alle scarpe, mi mandarono al Governo dell'HARAR, e qui si cominciava a sentire aria di guerra.

HARAR era una bella zona, sembrava non Africa ma Europa; vicino c'era un piccolo monte chiamato MONTE ACHIM (Dottore) - la leggenda diceva che MENELIK vi passava un periodo di cure.

Il 10 giugno scoppia la tempesta del secondo conflitto mondiale.

Il primo agosto del 1940 mi mobilitarono per la campagna di guerra verso il SOMALILAND (Somalia Inglese), il 7 dello stesso mese fu occupata la cittadina di ARGHEISA, posticino ideale per gli Inglesi, tutte villette e zona salubre. Qui racconto un particolare: comprai una gallina senza sapere quanti anni avesse, la pagai 7 lire, la mangiammo in 7 persone, era il giorno sette del mese di agosto del 1940; non cuoceva mai tanto era dura, poiché non avevamo altro rosicchiammo perfino le ossa.

Il Comandante del plotone era il Ten. PUCCI Ildebrando, e noi eravamo la sicurezza a protezione del Comandante delle operazioni di guerra, Generale DE SIMONE, GOVERNATORE DEL GOVERNO DELL'HARAR.

 - immagini dalla rete -

[sopra] Cartolina di propaganda che, con la retorica tipica dell'epoca, simboleggia il Comando Truppe del Governo dell'Harar, da dove, nell'agosto del 1940 partì l'offensiva italiana per la conquista del Corno d'Africa.

Luigino, in forza al plotone della sicurezza al Generale C. De Simone, faceva parte della colonna di centro, composta dalla XIII, XIV e XV Brigata Coloniale. Base di partenza Jijiga [Giggiga] - obiettivo Berbera.                                      

Anche la cartolina sulla sinistra, è tipica della retorica degli anni caratterizzati dalla mobilitazione in A.O.I.

Per chi desidera rivivere l'atmosfera del periodo, che ha segnato profondamente la vita di tanti giovani italiani, proponiamo l'audio originale di quella marcetta, caricata di altri significati nel panorama politico italiano degli anni del Ventennio.

[cliccare sull'immagine o sul titolo]

In questa immagine noi rivediamo la ragazza che andava in sposa secondo le usanze locali, e che Luigino ha descritto in un addendum, quasi a stemperare  l'atmosfera di guerra  narrata sino a  quel momento.

  Luigino GIOVANNELLI

   La squadra

La foto sulla sinistra è stata ripresa il 1° Febbraio 1940 ad Harar, nell'occasione di una celebrazione militare.

I ragazzi, raggruppati al centro, sorridenti e scherzosi, non sanno ancora di essere stati selezionati per costituire la squadra di sicurezza del Generale de Simone.

Spavalderia, temerarietà, prestanza e resistenza fisica tra le doti richieste, ma non le uniche.

Tenacia, determinazione ma soprattutto riservatezza e senso assoluto della disciplina, che in questo gruppo interforze (Carabinieri e Fiamme Gialle) si esaltavano nel fondersi dei rispettivi motti, nel comune:

Adusi Obbedir Tacendo ..

.. Nec Recisa Recedit.

 

 

 


[Scorrendo la  foto con il puntatore del mouse, questo si attiverà indicando il nome militare selezionato]


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i Racconti  

   

Bombardamenti aerei e cannonate non mancavano mai,si era sempre in pericolo di vita; fame e sete non mancava mai,tanto era la sete che bevetti perfino acqua impastata di nafta, era l'acqua per il raffreddamento del motore della macchina.

Fortuna volle che arrivò un'autobotte piena di acqua per abbeverare i muli, mi rivolsi all'ufficiale se poteva darmi due bidoni di acqua per preparare un po’di vitto. Prima dovevano bere i muli, il resto per noi.

L’abbeverata, si faceva dentro un grande telone che fungeva da abbeveratoio.

Dopo dissetate le bestie potei avere non 2 ma 4 bidoni; pensando che in quel telone avevano bevuto i muli e l’acqua era bavosa, ma purtroppo la necessità non conosce ostacoli, bevemmo e facemmo pure da mangiare.

Si dava precedenza ai muli perché servivano per portare tutto il necessario per la truppa. C'era per terra un mulo nazionale, portai una tanica d’acqua che bevétte, in un baleno, si alzò ma ricadde tanto era debole non si reggeva in piedi,noi partimmo e chissà che fine fece, forse servì per pasto a iene e sciacalli.

Ogni giorno ci si avvicinava al luogo più cruento delle difensive degli Inglesi.

 Il sole spuntava sempre alla stessa ora, ore sei, l'ora di orientamento per ricominciare con gli ordigni di morte.

La linea degli Inglesi fu travolta a prezzo di sacrifici di vite umane da ambo le parti. I Monti GIBRIL furono occupati, e la marcia continuava verso BERBERA, ma molti ostacoli erano avanti a noi.

LAFARUG!! zona del diavolo [N.d.R. 30 km a nord di Berbera], se la testa non era ben protetta dal casco si rimaneva stecchito, sete, sempre sete a non finire 50 gradi all'ombra. Vitto sempre poco, quello, che ci manteneva era il morale per giungere alla meta. In questa zona, in seguito ad un bombardamento al tramontar del sole fatto dagli Inglesi si creò un grande scompiglio; mi salvai per miracolo; perdetti il casco, la giubba e lo zaino per raggiungere un posto protettivo, mi infilai sotto un camion, fortuna volle che non fu colpito altrimenti sarei saltato in aria; era carico di materiale bellico.

 - immagine dalla rete -

Superata Hergeisa, il plotone oltrepassa  la zona impervia del passo di Tug Argan con l'aiuto dei fidati muli nazionali.

La mia fortuna fu che avevo una bustina e con questa mi ricoprii il collo e 1a testa, e con questa feci tutta il resto fino a BERBERA, ove trovai un casco lasciato degli Inglesi.

Sfondate tutte le difese inglesi, finalmente si arrivò a BERBERA, la notte verso mezzanotte; era un ammasso di rovine e fuoco; gli Inglesi prima di allontanarsi bombardarono ed incendiarono tutto quello che potevano distruggere.

La guerra è fatta così: in caso disperato si distrugge tutto per non lasciare materiale al nemico.

Sette giorni di tregua e riposo per noi, ma sempre allerta per non essere sorpresi da qualche brutto tiro.

Dopo questa sosta di nuovo partenza per altre zone da occupare. Si doveva raggiungere una zona non tanto sicura per noi; ma non dovevano esistere ostacoli; si era in guerra e si doveva ubbidire a qualsiasi costo.

Si doveva raggiungere ERIGAVO e da qui un’altra zona. Come DIO volle si arrivò ad ERIGAVO.

Di qui un altro ordine, si doveva partire per HEIS sul Mar Rosso, altri cinque giorni di viaggio passando per zone impervie e piene di pericoli.

Il tenente che comandava era un bravo ufficiale, giovanissimo ma poco esperto di Campagna d’Africa; si raccomandava a noi veterani; sopportava rassegnato tutti i sacrifici ubbidendo ciecamente agli ordini che riceveva.

 Come DIO volle arrivammo ad HEIS, posto  molto importante ma pieno di insidie per noi. Quello che rinfrancava il nostro spirito era il  mare, ma suscettibile di sorprese, navali ed aeree.

Vitto sempre scarso perché eravamo lontani dal servizio logistico (sussistenza) dovevamo provvedere da noi. Quello che consolava era essere vicini al mare, per pescare quel tanto per poter vivere; si prendevano pescecani, aguglie, murene quando c'era la bassa marea sotto ai scogli, istrici, pellicani e marmotte; di rado qualche antilope (gazzelle) e tutto quello che ci veniva a tiro per poter sopravvivere.

Marce forzate di giorno e di notte, a sorvegliare la linea lungo la riva del mare per non ricevere sorprese di incursioni da parte degli Inglesi. Le sorprese erano sempre in agguato.

IL 24 DICEMBRE 1940 la sentinella segnalò allarme navale; tutti andammo alle postazioni per la difesa in caso di sbarco degli Inglesi. Io comandavo una squadra composta da dieci ascari ed un collega nazionale, pronti ad ogni eventualità. La nave si avvicinava sempre più e aprì il fuoco cannoneggiando senza tanti complimenti  dandoci il saluto  mattiniero; poiché non

 - immagine dalla rete -

Nella cartina sono evidenziate le direttrici lungo la quali si svolsero le operazioni di attacco delle Forze Armate Italiane in A.O.I. , con avvio il

3 Agosto 1940

Luigino percorse la direttrice di centro, in quanto componente del reparto speciale interforze, preposto alla protezione del Comandante delle Operazioni di Guerra, Generale C. De Simone.

vedevano nessun movimento stavano per mettere una scialuppa a mare; io ero occultato molto bene e aprii il fuoco con la mia micidiale mitragliatrice Schwarzlose, alla distanza di 150 metri circa; ritirarono la scialuppa e misero la cortina fumogena che occultò tutta la nave per non essere colpita, sviando la nostra mira; nel contempo anche le altre due mitragliere aprirono il fuoco. La nave si allontanò cannoneggiando.

Danni pochi, paura tanta. Dopo questa incursione navale, gli Inglesi vista la nostra reazione, diedero la risposta il giorno successivo. Noi ci mettemmo in allerta in caso di altra sorpresa, prendemmo le nostre precauzioni, arretrammo di ca.500 metri dalla riva del mare, zona protettiva.

IL 25 DICEMBRE 1940 la sorpresa; verso le ore 12:00, gli inglesi credevano di sorprenderci nell’ora del pranzo; arrivarono con nove apparecchi da bombardamento buttando bombe di grande potenza, fra le quali una bomba creò un pozzo, ma purtroppo l’acqua era salata.

Questa era la risposta del giorno prima; sulla nave ebbero morti e feriti, lo seppi quando mi fecero prigioniero, lo disse il capitano inglese che parlava l’italiano ed aveva la moglie in Italia, in Toscana.

Dopo queste incursioni non avemmo più tranquillità, ma le giornate si presentavano calme, ma la calma in tempo di guerra è la più pericolosa.

- immagine dalla rete -

Ulteriore cartolina di propaganda, che rappresenta una postazione di mitragliatrice SCHWARZLOSE 8X50, la medesima utilizzata da Luigino nell'azione descritta nel capoverso precedente.

IL 2 GENNAIO 1941, la vedetta segnalò un’altra nave più grossa della prima; ormai eravamo sottobersaglio. La notte io ed un altro collega avevamo fatto il pane con farina amara, lui aveva portato il pane, io rimasi per preparare un po’ di caffé se caffé si poteva chiamare; presi il binocolo, si vedeva il pennacchio, non la sagoma della nave.

Speravo che la casseruola bollisse, ma niente affatto; riguardai e comparve la sagoma, non c’era da perdere tempo, lasciai tutto; non avevo fatto neanche 400 metri arrivò la bordata colpendo proprio dov’erano le nostre piccole riserve, acqua forno e il nostro piccolo magazzino viveri. La nave era troppo lontana, non si poteva reagire con le mitraglie. Nella posizione in cui eravamo non potette arrecarci alcun danno, ma la nostra riseva finì tutta, e così finì anche la nostra tranquillità vicino al mare.

 

- alcune, poche foto di quei giorni indimenticabili - 

.

- HARAR - 25 Novembre 1939

La foto fu ripresa nell'occasione di una delle cerimonie religiose con la quali si cercava di non disperdere il senso dell'umano, seppure in un contesto di guerra.

Come accennato nei paragrafi precedenti, Luigino [secondo da sinistra, individuabile dalla x tracciata a penna] è tra i "veterani" del plotone in via di costituzione.

 

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i Racconti  

   

IL RIPIEGAMENTO

APRILE 1941, cominciarono ad arrivare notizie sconcertanti, noi eravamo quasi isolati, non si aveva speranza di nessuno aiuto. Fu captato un ordine di ripiegamento verso la Somalia Italiana, gli Inglesi ci avevano tagliato fuori dalla linea delle difese italiane. Quello che ci preoccupava erano i ribelli in favore degli Inglesi, che tenemmo a bada sino ad allora. Ci mettemmo in ritirata; con immenso sacrificio riuscimmo ad arrivare nella Somalia Italiana dopo sette giorni di marce forzate. Lungo il cammino non dico quello che si soffrì !!. Sete, caldo torrido e sempre a piedi, e pochi generi alimentari per poter vivere.

Un ascari che conosceva la zona indicò uno uadi(letto di un fiume secco) e sotto ci doveva scorra l'acqua; picconi e badili scavammo un pozzo tutto la notte, finché l'acqua fu trovata, acqua freschissima. Facemmo rifornimento per quello che poteva servire tutta la giornata. Si ripartì subito perchè gli Inglesi sapemmo che ci incalzavano.

Di notte si arrivò  in una zona paludosa ove vi erano delle polle d'acqua, immersi la borraccia dentro e la riempii, tanta era la sete senza guardare se l'acqua era bevibile; per prevenzione misi un fazzoletto come  filtro; guardai e vidi che vi erano vermetti che si muovevano; non succese niente, nessun disturbo viscerale. Tanta era la sete, che non si guardava tanto per il sottile.

FINALMENTE si arrivò alle oasi di Amuhr nella Somalia Italiana nella Valle Migiurtinia; acqua freschissima, ci ristorammo alla meglio che si potette, ma un'altra sorpresa ci aspettava.

Un ascari della mia squadra mi disse che i DUBAT davano segni di ribellione; l'ascari era eritreo, e non faceva conbutta con i Dubat; lui seguì la nostra sorte.

Con il comportamento astuto e coraggioso del Capitano Coglitore e del Brigadiere Rucchio riuscimmo ad arginare la situazione abbandonando tutto per salvarci, mentre i Dubat si stavano dividendo  il bottino, di quel poco che era rimasto; non badavano ai nostri movimenti, aggirammo una collina e fu la nostra salvezza.

Iniziammo la nostra marcia forzata alle ore 14:00 del 25 aprile 1941, fino alla mezzanotte dello stesso giorno. Arrivammo a Bender Cassim (Boosaaso) sfiniti, ove trovammo altri colleghi scampati alla ribellione dei Dubat Carrim. Qui ritrovai il mio tenente (Ildebrando Pucci), che si si salvò dopo aver freddato, per difendersi, tre Dubat.

Ognuno raccontava la sua avventura. Non era finito.

Tutta la nostra difesa a Bender Cassim era di 40 uomini, tra cara=

- immagine dalla rete -

Cartolina della serie edita dalla "Rivista Militare", e dedicata alle uniformi delle Truppe coloniali. Il disegno di Bianchi Galangay raffigura un finanziere ascari.

binieri e finanzieri, ma demmo al nemico un bel pò di fastidio nella valle Migiurtinia, Purtroppo noi eravamo pochi.

5 MAGGIO 1941 dopo aver fatto una vigilanza agli avamposti, gli inglesi ci incalzavano, con i  miei Ascari mi dovetti ritirare di notte tempo, fatto il segnale di pericolo che il nemico stava avvicinandosi.

Ritornai alla base, e la mattina su di noi c'erano gli aeroplani, al largo del mare c'erano le navi più le truppe corazzate via terra; gli Inglesi prima di attaccarci ci intimarono la resa che noi, vista l'impossibilità di difenderci, accettammo dopo aver distrutto tutto il materiale bellico.

Questa data e l'orario mi riportavano alla mente l'entrata in ADIS ABEBA nel 1936, alle 16:30, del MARESCIALLO BADOGLIO.

 

Truppe coloniali italiane

 ricevono

l'onore delle armi

dai militari inglesi, dai quali sono stati fatti prigionieri.

- immagine dalla rete -

Alle ore 16:30 del 5 Maggio 1941 rimasi prigioniero; così finì il nostro sogno di vittoria.

     

Sospendiamo brevemente il racconto, per inserire alcune immagini tratte dalla rete, ed un breve testo descrittivo. Ciò per dettagliare quanto Luigino ha sinteticamente descritto nelle sue memorie, dando per scontato che chiunque ne avrebbe immediatamente inquadrato l'immagine nel contesto storico d'appartenenza. Questo nostro inciso è rivolto ai giovani che ci hanno chiesto chiarimenti su alcuni termini trovati nel racconto. Precisiamo inoltre che per alcuni luoghi geografici non è stato possibile individuarne con esattezza la localizzazione [probabilmente il nome indicato da Luigino è incompleto o testualmente impreciso], stante anche la parziale disponibilità di carte geografiche relative al territorio dell' ex Somaliland.

[per attivare le didascalie scorrere le immagini con il mouse ;  visionarne il dettaglio cliccando su di esse; tornare al sito cliccando sulla freccia "passo indietro" del menù]


La Schwarzlose M.07, cal. 8x50, era un'arma alimentata a nastro e raffreddata ad acqua, progettata dal tedesco Andreas Wilhelm Schwarzlose.

L'alimentazione consisteva in un nastro di tela munito di taschette nelle quali alloggiavano proiettili. Come munizionamento essa era stata camerata per la cartuccia 8x50R dei fucili Steyr-Mannlicher M 95, gli stessi in dotazione ai Dubat.

Cadenza di tiro      : 400-580 colpi/minuto;

Alimentazione     : nastri da 250 proiettili;

Velocità iniziale     : 580 m/s

Gittata utile           : 150-1800 metri.

La mitragliatrice Schwarzlose prevedeva originariamente la lubrificazione di ogni cartuccia per facilitare il ciclo di ricarica. Nel 1912 ci sono stati introdotti dei cambiamenti nel sistema di caricamento, che hanno dato origine alla nuova M1907/12.

La canna era raffreddata ad acqua ed il serbatoio conteneva fino a tre litri di liquido

La gestione della Schwarzlose prevedeva oltre al tiratore, due serventi su entrambi i lati della mitragliatrice. Essi erano rispettivamente addetti al sistema di raffreddamento, ed al munizionamento.

Quanto sopra descritto risalta nella terza foto della sequenza, che ci mostra l'addestramento di un plotone di "Penne di falco", la famosa cavalleria indigena.

[dettagli sul sito http://www.regioesercito.it/armi/armi_portatili/mitra_schwarz.htm]


Jijiga - Giggiga;

Hergeysa - Hergejsa - Hergeisa - Hargaysa;

Berbera - Borbara;

Ceerigaabo - Erigabo - Erigavo ;

Bender Qassim - Bender Cassim - Boosaaso - Bosaso;

Djibouti - Jibuti - Gibuti;

Awash - Auausu - Hawash;

Dirè Dawa - Dire Daua - Diredaua.


Dubat – i leggendari “Turbanti Bianchi”, componenti "Le Bande Armate di Confine", istituite dal Governatore De Vecchi il 23 luglio 1924.

Truppa intermedia fra regolari ed irregolari, costituita con l'arruolamento degli uomini più prestanti e coraggiosi della Somalia, che per il loro ardimento e l'impeto nell'assalto ebbero anche l'appellativo di "Bersaglieri Neri".

La principale caratteristica che li caratterizzava consisteva nell'estrema leggerezza di armamento e di equipaggiamento, che consentiva spostamenti rapidissimi.

 La velocità, la capacità di viaggiare per giorni interi o settimane sotto un sole rovente  resistendo ad ogni disagio, viaggiando senza scorte di acqua o cibo, il loro ardimento ed il loro non comune sprezzo del pericolo e della morte contribuirono ad alimentare la leggenda di questi guerrieri.

Il reclutamento venne fatto esclusivamente fra elementi delle "cabile" di frontiera che potevano dare un sicuro affidamento oltre che per lo spirito combattivo e la straordinaria resistenza, anche per la  conoscenza del territorio e delle popolazioni con le quali sarebbero venuti a contatto, sia per fare la guerra che per impedire razzie e sconfinamenti. Lo scopo era quindi duplice: avere a disposizione una truppa sceltissima da impiegarsi come reparto d’assalto e garantire nel contempo le frontiere del Kenia e dell’Abissinia, in special modo quest’ultima, dalle invasioni dei predoni considerati invincibili semplicemente poiché sino ad allora non avevano sempre avuto un adeguato contrasto.

Al comando delle varie bande vennero assegnati quasi sempre ufficiali provenienti dagli alpini.

I Dubat erano gente orgogliosa che andava trattata con gentilezza, e diplomazia. Il loro apporto fu prezioso in varie fasi della campagna in A.O.I. ma si dimostrarono estremamente infidi con il procedere degli eventi fino a passare al nemico nell'ultima parte della Campagna. Nei territori sultaniali di Obbia e Migiurtinia si ribellarono all’autorità italiana sotto la guida del vecchio capo Osman Mahammud.

Sola eccezione costituirono gli eritrei che dimostrarono, con un generoso contributo di eroismo e di sangue, la loro fedeltà all'Italia.


Per quanti desiderassero dettagli maggiori, e/o approfondire la conoscenza del momento storico, segnaliamo alcuni siti, nei quali abbiamo svolto ricerche, e che hanno costituito, in parte, la sorgente alle nostre informazioni:

> http://it.wikipedia.org/wiki/ascari                                                                                                                     > http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_d'Etiopia

> http://it.wikipedia.org/wiki/Campagna_Alleata_in_Africa_Orientale_(seconda_guerra_mondiale)            > Il Museo degli Ascari

> http://it.wikipedia.org/wiki/Conquista_italiana_della_Somalia_britannica                                                    > Biblioteca Africana di Giancarlo Stella

> Ascari - I leoni d'Eritrea                                                                                        > Ascari d'Eritrea                   > Esercito Italiano e Truppe Coloniali

> DUBAT                                                                                                                                                                     > Dubat - i bersaglieri neri


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i Racconti  

   

QUESTO E' COME UN POST SCRIPTUM

PASSI SALTATI DEI PUNTI DIMENTICATI - Non è fantasia ma realtà.


Partii da ADIS ABEBA per HARAR col treno che andava a GIBUTI (Somalia Francese); prima tappa notturna la fece ad HAWASC, zona terribilmente malarica; c'erano così tante zanzare, che la mattina avevo la faccia butterata dalle punture; eravamo otto, sei furono contagiati dalla malaria.

La seconda tappa fu fatta a DIREDAUA [nella lingua locale Dirir Dahba = luogo della medicina], con una sosta di tre giorni.


Ad HARAR,un giorno sentivo un grande vociferare, erano ragazze vestite tutte in  maniera sgargiante e gioiose nell'accompagnare una ragazza anch'essa vestita sgargiantemente ed inghirlandata, posta a cavalcioni di una mula tutta ingualdrappata. Questa ragazza veniva portata a celebrare il matrimonio, e conoscere il futuro marito. Matrimonio combinato dai loro rispettivi genitori. Senza conoscersi ed essersi mai visti; belli o brutti si dovevano sposare. Questa erano le usanze degli Hararini di allora.

 


Mi trovavo in libera uscita e mi facevo accompagnare sempre da un ascari(soldato di colore); sentii grida di gioia e gla gla gla [suono gutturale ripetuto a tono alto dalle donne], domandai cosa fosse, mi disse che festeggiavano un matrimonio e siccome io ero curioso di conoscere questi riti orientali mi avvicinai e vidi un bel gruppo di persone tutte vestite di bianco secondo il loro costume.

La sposa era circondata da donne, e lo sposo da uomini con i riti di congratulazioni ad ambi gli sposi.

Mi feci indicare lo sposo dall'ascari, e lo sposo mi venne incontro e gli tesi la mano congratulandomi con lui, e gli regalai un pacchetto di sigarette; agli altri offrii una sigaretta ciascuno ed ai ragazzini che erano intorno a me regalai un po' di spiccioli, e per tanto poco questi bambini furono molto felici.

Lo sposo per farmi onore chiamò una ragazza e mi offrì la birra fatta a modo loro [aspra birra abissina chiamata teg] porgendola anche all'ascari.

Lavarono la tazza con acqua pulita e prima di offrirmela la ragazza ne versò un po' nella coppetta della mano e bevve e poi mi offrì la tazza che io bevvi molto volentieri.

Se non l'avessi accettata sarebbe stata una grave offesa verso di loro.


Ad HARAR morì un mio collega; si chiamava SOGNO, era un sardo, un bravo ragazzo. Si punse con una spina, fece infezione e morì di tetano. Toccò a me fare la guardia nella camera mortuaria, assieme ad un carabiniere.

Mi venne la curiosità di scoprirlo; era diventato cianotico, a me non fece impressione, il carabiniere rimase tanto scosso che a stento riuscii a sostenerlo e portarlo fuori. Lo stesi per terra e lo stavo rianimando, quando sentii dietro un ringhiare di animali; mi voltai e vidi due occhi lucidi. Era una iena; afferrai due mattoni scaraventandoglieli contro; scappò tutta ringhiando. Il carabiniere si riprese e ci rimettemmo ognuno al proprio posto. Se io fossi stato un fifone sarei caduto addosso allo svenuto. Quando raccontavo questo episodio, gli amici si mettevano a ridere, dicendomi che era una mia invenzione. La iena è un animale vile e feroce; si nutre di carogne e non affronta la cosa viva.


Il dieci giugno 1940 scoppiò la Seconda Guerra Mondiale; si verificarono le prime incursioni aeree su HARAR, ci furono 20 morti e trenta feriti e tanto materiale distrutto; poiché colpirono l'autoreparto nelle ore di mezzogiorno, da questo bombardamento fui salvo.

Il primo Agosto mi mobilitarono per la campagna del Somaliland inglese verso BERBERA, la capitale della Somalia inglese.

Un mio collega di Chieti, di nome Marra Leonardo, durante l'avanzata trovò una testa di pecora con tutto il collo appesa ad un ramo, e vi era ancora il fuoco acceso vicino a una piccola pentola; dalla fretta, poiché noi incalzavamo il nemico, lasciarono e fuggirono a tutta fretta. Senza tanti complimenti la riordinò e mise a cuocere senza sapere se era buona o meno. Il giorno successivo,sempre durante l'avanzata, prima dei monti GIBRILL trovammo una tartaruga grossa di circa cinque sei chili; Marra la prese, la spaccò, la pulì e la mangiammo. La fame e la sete non hanno limiti.

Due giorni dopo che eravamo a BERBERA, io ero di guardia in un magazzino mezzo diroccato, ma vi era roba che poteva servirci; poco lontano c'era un buncher, pieno con 5.000 latte di benzina, circa 100.000 litri. Non si sentiva nessun rombo di apparecchio, volava talmente alto; verso  mezzogiorno senza

- immagine dalla rete -

La foto mostra la piazza principale di HARAR nell'anno 1936.

che qualcuno se ne accorgesse scaricò due potenti bombe che per fortuna non colpirono il bersaglio; io rimasi ricoperto di terriccio; lontano da me a circa 100 metri, c'era un ufficiale dei carabinieri che rimase gravemente ferito ad una gamba, e che a seguito di quella azione fu promosso capitano per merito di guerra, per il suo grande comportamento militare. Non ebbe fortuna, morì ad AMBA ALAGI il mese di maggio 1941.

Se quelle bombe andavano a segno, sarebbe stata la mia fine.

A BERBERA, dopo aver seppellito quei pochi morti che trovammo e quelli che il mare ributtava sulla riva, si ricevette l'ordine di partire per ERIGAVO prima, e poi per HEIS sul Mar Rosso.

A BERBERA ricevemmo l'elogio del VICERE d'ETIOPIA,il DUCA d'AOSTA. Morì a Nairobi(Kenya)il 2 marzo 1942.


Sin qui i ricordi "di uno che c'era", che ha vissuto quegli avvenimenti sulla propria pelle, e che a distanza di 50 anni scavava nei meandri della memoria facendo riaffiorare le emozioni, i timori, gli entusiasmi di un tempo e, quello più grande, di essere in grado, superate quelle prove, di trasferire tutto ciò ad una delle sue nipotine.

Integriamo l'esposizione mostrando come la Storia, con fredda professionalità "notarile", tramanda l'ufficialità di quei giorni:

Ostafrikanisches Kommando
Kommandierender General: HRH Amedeo di Savoia – duca d’Aosta, Vizekönig von Äthiopien

“Giuba” Sektor:
Kommandierender General: Generale C. de Simone
20 Colonial Bde.
91 Colonial Bde.(in Aufstellung)
92 Colonial Bde.(in Aufstellung)
2 irreguläre Kavalleriebrigaden


Il 3 Agosto 1940 le truppe del generale Nasi varcarono la frontiera tra Etiopia e Somaliland,  frazionandosi in due colonne. Quella a nord  puntò subito verso Gibuti che raggiunse in soli due giorni. La direttrice centrale, gestita dal generale C. De Simone avanzò verso Hargheisa, superando la strenua resistenza dei reparti del Camel Corps.

De Simone impiegò due giorni per raggiungere Hergeisa [ca.  40 km], e per contrastare un eventuale contrattacco inglese, nei tre giorni successivi. consolidò le difese dell'obbiettivo appena raggiunto.

L’ 11 Agosto il Corpo di Spedizione italiano raggiunse il passo di Tug Argan, ma gli Inglesi avevano rinforzato gli effettivi con un battaglione dei famosi “Black Watch” scozzesi, e completato la realizzazione dei alcuni fortilizi.

Una compagnia di Punjab venne sbaragliata dall'intenso fuoco di artiglieria,

e la Brigata di testa della colonna italiana proseguì nell'avanzata, incontrando ovunque accanita resistenza, anche grazie al cospicuo sistema difensivo realizzato dagli Inglesi, in profondità in tutto il territorio. La resistenza inglese inizia a scemare il giorno 15 Agosto, quando alle ore 19:00 cade il fortino n. 1 [denominato Gibilterra dai soldati inglesi] e viene innalzata la bandiera Italiana; da quel momento il nemico abbandona via via tutto il sistema difensivo. Il 17 Agosto le truppe italiane raggiungono LAFARUG ed il 19 Agosto 1940 BERBERA. Gli Inglesi,  imbarcati per il Kenya e lo Yemen,  abbandonano tutti i materiali e le armi pesanti, che non sono riusciti a distruggere, per non farle cadere in mano al nemico. .


Il corpo delle Fiamme Gialle era presente in A.O.I. già negli anni precedenti la Campagna del Somaliland.

L'Etiopia, a tutti gli effetti una provincia d'Italia, vedeva i reparti della GdF svolgere i compiti d'istituto anche lungo le proprie frontiere.

 Le immagini a lato, tratte dalla rete, mostrano alla sx. un finanziere dei reparti  coloniali intento al  controllo di una delle  tante carovane che collegavano i territori interni alla costa del Mar Rosso.

Onnipresente il fido ascari, i cui vistosi gradi e le stelle sul fez e sulla giubba, ne testimoniano gli anni di servizio.

L'immagine sulla dx. mostra appunto i fregi della Regia GdF per i reparti d'oltremare.


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PRIGIONIA

A BENDER CASSIM, (per un mese e 19 giorni) gli Inglesi usarono uno stratagemma: prepararsi subito che si doveva partire; si prese quel po’ che si poteva e andammo al molo in attesa della nave; dopo più di un’ora di attesa dissero che la nave non poteva venire. Ritornammo ove era il nostro dormitorio,trovammo tutto devastato. Le truppe inglesi di colore portarono via tutto quel poco che avevamo lasciato.

Il 25 Giugno ci imbarcarono portandoci ad ADEN nello YEMEN Campo C.2, con una sosta di 2 mesi e 19 giorni.

Il trattamento era bestiale e schifoso; pasta e riso avariato con vermi che galleggiavano nella pentola, pasta con scarafaggi ed era pasta italiana che avevano trovato in Abissinia, olio di semi greggio non raffinato, la dissenteria si sprecava, si era al colmo della sopportazione. Io avevo un orologio non di marca, lo vendetti ad un arabo per due rupie per comprare allo spaccio una manciata di noccioline che gli arabi vendevano.

Gli Inglesi ad Aden mi sottoposero a perquisizione, mi tolsero un po’ di pasticche lassative, il rasoio per farmi la barba, protestai; mi apostrofarono con un "be quite" (silenzio).

E qui durante la sosta mi sottoposero ad interrogatorio per conoscere quali erano i miei punti di vista sul fascismo. Mi chiesero se ero fascista, risposi SI; da quando: da quando sono nato; che carica rivestivo, risposi: niente; che carica rivestivo nelle file dell’esercito, risposi Guardia di Finanza; erano rimasti un po’ pensierosi, visto così lo dissi in inglese (Custom Police) cioè guardia doganale; loro subito di rimando: un custom police fascista? io risposi: quello era il  governo  che  c’era;  mi  mandarono via e li

Truppe coloniali italiane ricevono l'onore delle armi dai militari inglesi, dai quali sono stati fatti prigionieri.

salutai con il saluto romano; non l’avessi mai fatto, mi apostrofarono e sottolinearono il mio nome con la matita ROSSA: ero diventato un soggetto pericoloso.

Il 14 SETTEMBRE 1941 fui chiamato improvvisamente ed imbarcato senza sapere dove mi portassero; sulla nave sentii che mi portavano in INDIA e qui trovai ufficiali italiani della Guardia di Finanza prigionieri. Il nome della nave era PRESIDENTE DOUMER ed era il nome di un presidente della repubblica francese, ucciso da un russo nel 1932 [n.d.r. Paul Doumer deceduto a Parigi il 7 maggio 1932, assassinato dall'anarchico russo Paul Gorguloff].

Il personale era tutto francese, ma la dirigenza era inglese; dopo sette giorni di mare si giunse in INDIA, porto di BOMBAY; era il 21 settembre 1941.

Su quella nave, in un angolo, vi erano ammucchiati dei sacchi; mi avvicinai a tastando mi accorsi che era scatolame, e pensai che fossero scatole di carne, e tali erano; avevo un coltellino e con questo feci un buco non facendomene accorgere dalla sentinella poco distante. Io avevo una giacca sahariana tutta sporca più la camicia; riuscii a trafugare 10 scatole ed una manciata di patate Arrigoni, secche, preparate da una ditta italiana per l'esercito. Me le infilai tra la giacca e la camicia, sembravo una donna incinta; mi misi con le braccia conserte per mantenere il malloppo e me la filai mentre vi era il cambio della sentinella; scesi nella stiva dov'erano altri miei disgraziati colleghi affamati. Quando mi videro conciato in quella maniera tanto ero buffo con le braccia che mi tenevo la pancia credettero che mi sentissi male. Mi inginocchiai; alzando il mio vestimento uscì quella grazia di Dio, tutti contenti che finalmente si poteva mettere qualcosa sotto i denti, ed aprii le scatolette sempre con il mio coltellino.

Su questa nave, mentre alcuni prigionieri spostavano alcune casse di gallette, successe che una di queste si spaccò; le gallette andarono a finire sul pavimento, non riuscii a capire come fu i prigionieri presenti si buttarono a tuffo sopra queste gallette a chi ne poteva più afferrare. Le gallette si sbriciolarono tutte, Francesi ed Inglesi si misero a ridere a crepapelle vedendo quello spettacolo miserevole.La fame non ha limiti.

Appena giunti a BOMBAY iniziò la sbarco. A gruppi di venti persone alla volta, circondati da un plotone di soldati indiani comandati da Inglesi con fucili a baionetta innestata, che ci scortarono fino al treno, sistemandoci per ogni vettura 40 prigionieri compresi alcuni ufficiali di ogni grado, senza distinzione di trattamento.

Rimanemmo per 36 ore stipati fino a destinazione

- BAIRAGARH (Bhopal भोपाल) campo n.10 -

 I finestrini erano piombati e l'aria filtrava appena appena dalla piccola fessura posta sotto al finestrino. Non si poteva guardare fuori per nessuna ragione; questo strazio durò 36 ore d'inferno.

A BAIRAGARH [n.d.r. nel cuore dell'India, regione di Jhalawar - Rajasthan, Madhya Pradesch] come detto sopra fui sistemato al campo n.10 - BAIRAGARH nella lingua locale vuol dire piana morta ed io la nominai piana della morte perchè ne morirono tanti.

Mi vestirono dandomi un pantalone con le bande nere e la giacca con la toppa dietro la schiena; in caso di fuga saremmo stati subito riconosciuti. Quando mi misi i pantaloni pensai ai soldati di Giovanni de' MEDICI, che portavano le bande nere sulle insegne di reparto [n.d.r. Il nome di “Nere” con cui le bande di Giovanni de’Medici passarono alla storia, e con cui esse si individuarono dopo la morte del loro condottiero, era dovuto al colore delle loro bandiere che Giovanni aveva cambiato da bianco e violetto in nero in segno di lutto per la morte dello zio, il papa Leone X]. Se si staccava la pezza, dietro alle spalle della giacca rimaneva il buco.

In questa zona vi erano otto campi di prigionia, ed ogni campo ospitava 3.500 prigionieri circa.

Nel mese di gennaio 1942 ci furono casi di colera,e fummo tutti vaccinati. La vaccinazione  che mi fecero nel petto mi determinò la formazione di una grossa mammella dal liquido che mi iniettarono; mi sembrava di avere un mattone sul petto; comunque fu, superai la prova.

Qualche prigioniero morì a causa del colera.

Quello che mi dispiacque fu la morte di un mio collega, un piemontese di BOVES; dopo aver fatta tutta la Campagna del Somaliland insieme morì, non di

- immagine dalla rete, della rivista fotografica LIFE-

La foto ci presenta militari italiani addossati alla recinzione di un campo di prigionia alleato.

Il soldato indiano Sik monta la guardia con la baionetta in canna.

colera ma di scorbuto, il giorno 11 novembre 1941, dopo sette mesi di prigionia.

Sino a quel  momento, l'indirizzo per ricevere la rarissima posta dall'Italia, sottoposta al vaglio della censura, era il: N.° 1554 P.O.W. - Camp.X II°Wing. C/o G.P.O. BOMBAY - India-

Il mese di maggio 1942 si verificò la scissione; mi portarono al campo n.16, qualificato come campo di punizione (Criminal Camp) secondo gli Inglesi perchè catalogati fascisti; si era sempre sotto sorveglianza, il campo era circondato  dalle mitragliatrici. Le sentinelle non andavano tanto per il sottile, chi si permetteva, per sbaglio, di passare la linea di demarcazione posta vicino al reticolato dalla arte interna del campo, veniva colpito senza tanti complimenti. Nel mio campo vi furono un morto e quattro feriti. I feriti furono portati all'ospedale da campo.

Uno di questi lo rincontrai a Roma, dove lavorava presso la centrale del latte.

Nel campo tirai il carretto per tre mesi per andare a prendere i generi alimentari per tutto il campo. Mi ammalai di febbre malarica benigna, e per ammazzare il tempo mi fei un campicello davanti alla mia finestra della baracca. Nell'orticello piantai una quarantina di piante di pomodoro per dare vitamine alla mia pelle che si era seccata. Gli Inglesi mi dettero il permesso di piantarne altre. Fu fatto nell'antigabbia un campo di pomodori di cui si servirono anche gli Inglesi per le loro famiglie. Di vitamine avevano bisogno pure loro.

Trascorsi 13 mesi in questo campo, quando inaspettatamente giunse la notizia della caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, e dell'armistizio dell'otto settembre dello stesso anno.

Un mio collega appena saputa la notizia mi venne incontro tutto trionfante a braccia aperte dicendo che la guerra era finita e che per dicembre saremmo tornati a casa; a lui risposi con la domanda: di quale anno ??

A questa mia presa di posizione rimase imbambolato; gli spiegai che la prigionia vera cominciava adesso. Se avessimo avuto la speranza di vincere noi si poteva dire che andavamo a casa a dicembre.

Era il giorno 8 settembre 1943 - la prigionia per lui finì nel mese di giugno del 1946; ci rincontrammo a Pescara e mi dette ragione.

Il tempo trascorso da prigioniero in India fu dal  21 settembre 1941  al  18 febbraio 1944  = 2 anni e 5 mesi.


.

Soldati italiani catturati dagli Inglesi

Militari italiani vengono condotti nei primi campi di raccolta nella zona costiera del Somaliland, dopo la cattura da parte delle truppe inglesi.

Ancora una breve sospensione del racconto, per inserire alcune immagini tratte dalla rete, e completare così l'esposizione iconografica di quello che per molti giovani italiani fu la fine di un sogno, subdolamente inculcato nelle loro menti.

Un'immagine vale più di mille parole; ciascuno nel proprio intimo, nell'osservare le condizioni dei prigionieri italiani in A.O.I. condividerà con essi solo una piccola parte delle sensazioni che squassarono la loro anima dal momento della cattura. E questi, aggiungiamo, furono i meno sfortunati avendo potuto, almeno sino a quel momento, conservarsi ancora in vita.

Per coloro che volessero approfondire la conoscenza delle vicissitudini che i P.O.W. [acronimo di Prisoner of War] italiani vissero nei campi di prigionia inglesi nel cuore dell'India, offriamo la possibilità di leggere la recensione con la quale Sergio Maria PISANA presentò il libro di

Lionello FRONZONI  

“LA MIA INDIA”.

Si tratta del diario della prigionia scritto giorno per giorno dall'allora tenete FRONZONI, "ospite" come Luigino nel campo di Bhopal-Bairagarh, situato nella zona centro settentrionale dell'immenso continente indiano prima, e successivamente in quello di  Yol alle pendici dell'Himalaya.

Il parallelismo tra il "vissuto" dei due coetanei ci porta a conoscere, nel caso di FRONZONI, " .... un diario,  che

ha la freschezza di ciò che è scritto di prima mano. In ogni momento, chi scrive è consapevole solo del passato, ma ignora quello che gli riserva il futuro: ignora cosa scriverà l’indomani .... ".

Nelle cartelle scritte da Luigino, 50 anni dopo "quell'avventura", risalta prevalentemente la difficoltà del ricordo immediatamente completo per vicende tanto amare, e che conferiscono a NONNO Luigino l'orgoglio di tracciare alle proprie nipotine il percorso della propria vita, non certo agevole, comunque superato con determinazione, coraggio e piena gratitudine alle "entità superiori" che lo affiancarono anche in quelle circostanze.

Sentiero che ha portato Luigino a fregiarsi, tra le tante, dell'onorificenza a lui più cara, quella di NONNO, che antepone alla firma  posta in calce  al  diario  che affidò alla  nipotina più  grandicella.


Mi imbarcarono  a BOMBAY ma non si sapeva dove ci avrebbero portati; in un primo tempo dicevano che ci mandavano in AUSTRALIA, altro pericolo per noi per eventuali attacchi dei sommergibili giapponesi.

La destinazione fu l'INGHILTERRA.

Dopo un mese ed un giorno di navigazione sbarcai  a GLASGOW (Scozia) il 19 marzo 1944, il giorno di San Giuseppe; mi portarono al PATTERTON P.O.W. Camp 660 per un periodo di quarantena; essendo provenienti dall'India si poteva essere affetti da malattie infettive; si era a 20° C sottozero.

Il personale di guardia intorno al campo era di tutte le razze: Polacchi, Ungheresi. Romeni, Francesi etc.etc..

Durante la quarantena mi fecero il bagno così detto alla scozzese, acua calda con spruzzate di acqua fredda; il manovratore si divertiva a farci questo scherzo.

Anche questo fu superato; ma non bastava: mi portarono assieme ad altri prigionieri in un capannone lungo e freddo, senza riscaldamento; ci fecero spogliare completamente, mi guardarono in bocca, mi tastarono i muscoli e mi fecero una puntura sul braccio. Il mio peso era di 56 chili; quando mi fecero prigioniero ne pesavo 75.

Mi torna in mente un episodio: quando arrivammo a SUEZ, sul canale in EGITTO, furono imbarcati altri prigionieri italiani; erano in buone condizioni, ben messi in salute e ben nutriti.

Prisoner  of  War  No   T/161158

Guardarono con senso di paura  come eravamo ridotti noi li  rincuorammo dicendo loro che non eravamo cadaveri, ma gente ancora viva.

Dal  PATTERTON P.O.W. Camp 660, espletate tutte le pratiche burocratiche mi portarono a SELBY (Yorkshire), Sandbeds Camp No 12, Moreby Hall e da li ogni giorno a LEEDS a pulire i binari della ferrovia pieni di carbone e a caricare i vagoni, sempre sottoscorta delle sentinelle e sempre con la pezza dietro la schiena di colore nero; quella pezza era il segno delle persone pericolose.

A LEEDS, mentre stavamo pulendo i binari, si avvicinò una donnetta, e voleva darci del sapone per poterci lavare; la sentinella non lo permise e la mandò via; sapemmo che si trattava di una signora italiana.

Un giorno si seppe che Roma era stata liberata; gli Inglesi mi chiesero se volevo collaborare, tanto la guerra per noi era perduta; accettai e così mi tolsero la pezza nera dietro le spalle, ma lo stato di prigionia era sempre lo stesso. Si poteva fare qualche passeggiatina con più libertà anche nei luoghi abitati.

Lavorai anche a DONCASTER ufficialmente a dare il bianco a baracche ed antichi manieri che erano stati usati dalle truppe inglesi. Per me era un bel passatempo in attesa del rimpatrio.


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RIMPATRIO

La mia permanenza in Inghilterra durò dal 20 Marzo 1944 al 12 Gennaio 1946, esattamente un anno, nove mesi e 22 giorni. Il 13 Gennaio presi imbarco a SOUTHAMPTON, ma non ricordo il nome della nave.

Sbarcai a TARANTO dopo otto giorni di mare. A TARANTO non c'erano accoglienze festose per l'arrivo dei prigionieri di guerra; mi resi conto che eravamo degli sconfitti senza onore.

C'erano le dame della carità che ci accoglievano con grazia dandoci dei pacchetti di generi alimentari.

I tarantini se avessero potuto portarci via qualcosa sarebbero stati felici;pensavano che i prigionieri che pervenivano dall'Inghilterra erano carichi di ogni ben di Dio, senza sapere che eravamo dei poveri miserabili.

Il campo ove dovetti bivaccare per una decina di giorni, era tutto fango ed acquitrinoso, solita organizzazione del sistema italiano, baracche malfatte e sporche.

Finalmente disposero per la partenza per PESCARA, era pronta la tradotta con la dicitura: cavalli 8 uomini 40, mentre gli inglesi viaggiavano su carrozze con tutti i conforti. Già, loro erano i vincitori, e potevano fare come volevano. A PESCARA c'era la neve, ed alla stazione ci vennero a ricevere sempre le dame di carità che ci assistettero ad accompagnarci al posto di ristoro.

La tradotta impiegò due giorni per arrivare a PESCARA; a San Severo il treno fece sosta e fummo controllati da una ronda comandata da un ufficiale, che controllò i nostri documenti; mi venne da ridere per non piangere: oltre lo sgarro che si viaggiava su carri bestiame, ci voleva anche il controllo !!. Era proprio una completa disorganizzazione. Avevamo sì perso la guerra, ma un po' di decenza ed umanità non avrebbe dovuto mancare.

Germania e Giappone sono usciti dalla guerra peggio dell'Italia, e sono risorte, mentre l'Italia è rimasta una povera cenerentola per colpa di chi ci rappresenta. Queste considerazione le sto facendo oggi per il modo come si comportano questi nostri rappresentanti.Da PESCARA per SULMONA, altra delusione; viaggiai su di un camion sgangherato messo a disposizione di noi disgraziati straccioni; ci scaricò vicino al Distretto e qui trovammo della gente che ci chiedeva conosci tizio, conosci caio. Quelli di Sulmona andarono a casa, io rimasi al Distretto; che schifo la dentro, non c'era organizzazione.

Tornai fuori ed un ragazzino mi accompagno da povera gente a passare la notte; pagai 50 lire, che allora erano davvero tante.

Pagai con la cosiddetta Am-lira, moneta di occupazione [Allied Military Currency].

Tornai al Distretto il giorno dopo, e notai che il personale addetto era composto da affaristi senza scrupoli: chiedevano sterline e dollari - altro che dollari, io avevo soltanto dolori e miseria.

Altra delusione per salire a RIVISONDOLI. Dovevo provvedere a mie spese per tornare a casa, e non c'erano trasporti pubblici. Fortuna volle che vidi un camion diretto a CASTEL di SANGRO, e pregai l'autista se era possibile portarmi su; gli dissi che ero prigioniero di guerra, mi sistemò come meglio poté.

Scesi alla MADONNA DELLA PORTELLA, e l'autista mi raccomandò di non uscire fuori dalla strada segnata per tema delle mine.

50 Am-lire fu l'importo che Luigino pagò per l'ospitalità ricevuta a Sulmona da povera gente. Davvero troppo per un reduce di guerra.

Non avevo soldi, soltanto quattro pacchetti di sigarette inglesi, comperate sulla nave, e le avevo sempre di riserva come moneta; si pagava tutto in natura.

Arrivai alla PORTELLA verso le 19:30, mi raccomandai alla MADONNA che mi facesse arrivare sano e salvo a casa. A casa non sapevano nulla del mio arrivo; arrivai che erano passate le otto di sera; quando mi videro rimasero di stucco vedendo l'ombra di me stesso.

La gioia fu grande, ma il loro pensiero corse all'altro figlio, mio fratello GIORGIO prigioniero anche lui im KENYA. Anche mio fratello GIORGIO era in Africa, cadde prigioniero a GONDAR nel dicembre 1941, anche lui ebbe il suo calvario; rimpatriò nel dicembre 1946.

 Dopo  oltre sette anni  di assenza  dall'Italia,  il 13 febbraio 1946  ne feci ritorno.

Tornato in Italia ripresi servizio nella Guardia di Finanza, in forza a PESCARA.

Da qui venni successivamente assegnato a GENOVA,dove, sempre nel 1946 conobbi nonna ADRIANA, e ci sposammo nel mese di Aprile 1947.

Continuai ininterrottamente il mio servizio fino a raggiungere anni 39, mesi uno e 26 giorni, congedandomi il giorno

8 marzo 1964

 

FRANCESCA, non far caso agli errori, e penso che ce ne saranno tanti per battute falsate a macchina. Tanti altri particolari mi sono sfuggiti o mancano, perchè non posso ricordarli tutti.

Ho fatto uno sforzo sovrumano per ricordarmi luoghi e date, e spero di non averti annoiato; se si, devi credermi, non l'ho fatto apposta.

  Luigino GIOVANNELLI

La foto sulla destra risale alla fine degli anni quaranta. I mezzi pubblici sono ancora carenti, se non totalmente assenti, e la "marcia" quotidiana per il ritorno a casa non impensierisce Luigino. In fondo è meno pesante di quelle superate in terra d'Africa, e che ancora segnano il fisico; ma l'addestramento ricevuto consente ai due militari di fare quasi da "avanguardia" al folto gruppo di civili che li segue. Spaccato questo del quotidiano nel dopoguerra in Italia.

La strada è quella che s'inerpica verso le colline di Apparizione, nell'immediato entroterra genovese.


Anche la foto che segue è stata scattata sulle colline genovesi di Apparizione.

Ci piace considerarla la più intonata al completamento del racconto di Luigino, UOMO che superate le difficoltà incontrate sul suo cammino terreno, orgogliosamente e con tenerezza mette in risalto alla nipotina, alla quale indirizza il racconto della propria vita, il suo "status" di NONNO.

  Luigino GIOVANNELLI    Nonna Maria    Elvira    Mamma Adriana    zia Gemma    Tito    Nicola    Annita

 Ed  è certamente questo traguardo raggiunto dopo  tante  traversie, che  consente  al soldato, ormai ottantenne, di illuminare di una luce più soft i ricordi, fatti affiorare dal fondo dell'anima, dove li aveva tenacemente riposti per quasi cinquanta anni.

E nel cipiglio quasi marziale che Luigino ostenta nella foto, vogliamo vedere l'orgoglio con cui l'uomo, attorniato da alcuni componenti della sua famiglia, mostra la soddisfazione del traguardo raggiunto.

E sì, la vita è riuscita ad avere il sopravvento, e questa pagina web vuole esserne nel tempo doverosa, riconoscente traccia testimoniale.


 

 

 

 

 

 

 

[Scorrendo la  foto con il puntatore del mouse, questo si attiverà indicando il nome del famigliare selezionato]


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- Collaboratori d'edizione:  Francesca C. , Chiara  &  Adriana G.  ( Roma ).