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Rivisondoli in cartolina

La Voce di Rivisondoli

Alcune immagini già presenti nel sito, ci riportano alla realtà paesana d'inizio secolo, di pretta valenza contadina.

La progressiva decadenza della pastorizia spostò la povera economia paesana nella direzione dell'agricoltura, Questa era stata nei secoli monopolio dei grandi proprietari di terreni, i quali oltre a trarne profitti non trascurabili, ne fecero mezzo di ricatto e coercizione nei confronti delle masse meno abbienti. I feudatari infatti, forti di superiori disponibilità economiche, divenivano nei confronti del fittuario creditori non solo economicamente, ma e sopratutto di sementi e prodotti della lavorazione della terra che il povero contadino era costretto a barattare, naturalmente a prezzi stracciati, con il fitto che eventualmente non riusciva ad onorare. Soprusi ed angherie, come ad esempio l'obbligo di lavorare anche nei giorni festivi, si protrassero sino agli anni immediatamente successivi l'unità d'Itala.

 

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Infatti l'assegnazione di terreni del demanio avvenuta nel corso dell'Ottocento, non sempre venne realizzata in maniera equa, e fu anche tenacemente contrastata dagli allevatori, che paventavano una riduzione dei terreni adibiti a pascolo. Ed ecco che i terreni coltivati si addensarono nelle zone al limitare dei boschi o nelle zone collinari adiacenti i piani più estesi, laddove piccole depressioni naturali avevano accumulato strati di humus più consistente, rispetto ai sassosi pendii viciniori. Quella che iniziò a delinearsi timidamente come economia agro-pastorale venne via via poggiando su una nutrita serie di piccoli appezzamenti, tenacemente coltivati con notevoli sacrifici e fatica, e con il misero raccolto che permettevano, appena sufficienti alla sopravvivenza dei singoli nuclei famigliari.

Come dimenticare allora, ancora agli inizi del ventesimo secolo, gruppi di contadine che con "ru prudente" sulle spalle si recavano di buon mattino a dissodare i campi, o i più fortunati che tornavano in paese con il mulo o il somaro dalle "varde" cariche di sacchi di patate, prodotto che con il grano, l'orzo, la segale, e le scarse cicerchie, "riveglie" o "miccule" ( lenticchie) costituivano i principali prodotti dell'agricoltura del nostro territorio.

   

La durezza del lavoro necessario per strappare la terra coltivabile all'inclemenza dei luoghi e delle intemperie è mirabilmente compendiata nell'immagine sulle destra, che riprende ad inizio XX secolo, un momento dell'aratura ancora effettuata con il vomere in legno, trainato da una coppia di buoi.

Oltre all'aratro, sono in evidenza il giogo in legno fissato sul collo degli animali con delle corregge in cuoio, ed il contadino con il tipico gilet senza maniche.

Tra le zolle appena rimosse, sono evidenti i sassi ancora numerosi, nonostante le ripetute operazioni di bonifica già effettuate dalle generazioni precedenti, e testimoniate dal muretto a secco che si intravede al limitare del campo.

Questi muretti, oltre a svolgere ove necessario la funzione di delimitazione della proprietà, servivano proprio per proteggere i campi coltivati, allocati alle pendici scoscese dei rilievi circostanti, e contenere il rotolamento di ulteriori sassi che l'inclemente dilavare delle piogge avrebbe nuovamente trascinato a valle.

L'insidioso detrito di falda evidente nelle zone basali della costa presente nella foto, assevera quanto indispensabile fosse questa continua opera di faticosa bonifica.

Figure tipiche delle nostre campagne sono stati "ri mitituri", che si affacciavano sulle nostre montagne dopo aver espletato la loro  faticosa opera alle quote più basse.

Come descritto nella sezione " il lavoro nei campi", a Rivisondoli l'attività della mietitura del grano  vedeva impegnati prevalentemente i singoli nuclei familiari, coadiuvati da parenti ed amici in uno scambio reciproco di solidarietà. Soltanto i pochi possidenti locali ricorrevano alla mano d'opera esterna, che era costituita da autoctoni quando avevano completato il lavoro sui propri piccoli terreni, ma essenzialmente da professionisti forestieri provenienti da varie località limitrofe dell'Abruzzo e del Molise. Il periodo della mietitura può essere pertanto considerato come un momento di forte socializzazione, e quindi una occasione di aggregazione per riaffermare vincoli di solidarietà, valori di vita comune, gesti di lavoro, vocalità e modalità rituali al di fuori dei ristretti confini della comunità di appartenenza.

L'immagine sulla sinistra risalente al 1912, riprende un terzetto di mietitori che mostrano quasi con spavalderia le loro grandi  affilate "sarrecchie". La tenuta da lavoro è completata dal capace tascapane e dai grandi ombrelli sotto  i quali veniva ricercato un minimo di refrigerio nelle poche pause del duro lavoro.

Il taglio avveniva sempre quando il seme era ancora un po’ fresco, prossimo alla maturazione completa, (nelle nostre montagne non prima della fine di giugno). Nella saggezza contadina questo precauzione serviva per evitare  lo spreco dovuto alla caduta di parte del seme da spighe secche e parzialmente aperte e per mitigare i danni di eventuali improvvise grandinate.

Laddove possibile la mietitura veniva effettuata in strisce, ed al termine dell'operazione si avevano file di "menuechhie" che successivamente, nelle ore più fresche per ridurre la dispersione dei chicchi, venivano raccolti in grossi mucchi circolari con le spighe rivolte all'interno fino ad una certa altezza. Nella parte superiore veniva poi fatto una sorta di cono disponendo " ri menuechhie" inclinati in modo da far scivolare l'acqua in caso di pioggia e farli asciugare meglio.

La memoria ci riporta vivo il ricordo degli accessori che colpivano la fantasia di noi bambini, come ad esempio "ri chennièlle" , i lunghi ditali di canna con cui i mietitori si proteggevano le dita, al minimo il medio, l'anulare ed il mignolo della mano sinistra, tenuti insieme da da una sottile stringa di cuoio; come non ricordare poi lo strano grande chiodo con alettature (un piccola incudine trasportabile) che infissa nel terreno serviva a rinnovare e stendere,  con sapenti colpetti di "martellina" il filo alla "sarrecchia" laddove aveva urtato qualche grossa pietra.

  

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